Ogni anno, il mese del pride si accende di colori, musica, slogan e applausi. Le strade si trasformano in scene di celebrazione, le bandiere arcobaleno diventano simboli universali e le persone queer si prendono spazio. Ma in questo spettacolo collettivo spesso c’è un nodo che resta poco affrontato: le persone trans, pur essendo state tra le protagoniste della nascita del movimento, vengono spesso messe da parte. Non solo nelle posizioni di visibilità reale, ma anche nel racconto, nella memoria storica e nelle pratiche politiche quotidiane.
La storia è ben documentata: nel giugno del 1969, la storica rivolta nello Stonewall Inn di New York (considerata uno spartiacque per il movimento LGBTQ+) vide tra le sue figure chiave donne trans e drag queen marginalizzate, non persone come le altre o che hanno fatto realmente la storia queer. Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera, ad esempio, sono citate come protagoniste della mobilitazione queer e della costruzione del movimento.

Marsha P. Johnson (left) and Sylvia Rivera (right) were considered pivotal Mothers of the queer rights movement by Unerased
Eppure, già nei decenni successivi, queste figure cominciarono a essere “catalogate” in modi che le resero simboliche, icone “buone da citare”, ma non corpi centrali nelle narrazioni e nelle pratiche del movimento. Questo fenomeno è stato definito in diversi studi come “erasure” (cancellazione) o marginalizzazione delle storie trans.
Non si tratta però solo di un problema di “riconoscimento storico”: ha conseguenze profonde nella struttura stessa del movimento Queer. Quando le persone trans diventano visibili solo come elemento estetico o come “diversità accettabile”, senza che si affrontino le loro condizioni materiali (la discriminazione sul lavoro, l’accesso alle cure, la violenza transfobica, l’identità legale) allora la rivendicazione collettiva perde una parte consistente della sua forza politica. In molti Pride contemporanei la rappresentazione trans è confinata ai margini, l’intervento ospite per “diversità”, la bandiera trans un gadget o un’immagine laterale, mentre gli stand aziendali, i selfie e le sponsorizzazioni dominano lo spazio principale.
Prendiamo l’Occidente: in città come Milano, Roma, Berlino o Londra, le manifestazioni Pride sono diventate eventi mediatici, brandizzati, aggregatori di massa. In questo contesto, il soggetto “trans” fatica a trovare una piattaforma autonoma: spesso è incluso nel programma solo per “fare numero”, o solo in momenti simbolici. Ciò significa che le richieste specifiche della comunità trans (ad esempio il riconoscimento legale del genere, il diritto all’accesso alle terapie ormonali, la protezione reale contro la violenza) restano in ombra. In Asia, la situazione si incrocia con altre dinamiche culturali: in paesi come Giappone, Corea del Sud, Cina, la rappresentazione queer (e trans) è spesso mediata da norme forti su genere, famiglia, appartenenza sociale. In questi contesti, la figura trans appare in media e fumetti come elemento “eccentrico”, “diverso ma accettabile” solo se rientra in uno schema narrativo rassicurante. Questo tipo di rappresentazione non equivale a una reale visibilità o riconoscimento politico…
Un aspetto fondamentale è quello della memoria. Lo studio “Constellating Trans Activist Histories” sottolinea come focalizzarsi solo su episodi celebri (come Stonewall) rischi di oscurare altre storie di attivismo trans meno note ma cruciali. Inoltre, l’inclusione delle persone trans nei movimenti queer ha spesso incontrato resistenze interne: nel 1973, ad esempio, a San Francisco una parata Pride espressamente vietava la partecipazione alle persone transgender. Questa spaccatura storica mostra che la “solidarietà” queer non è mai stata scontata, e che la marginalizzazione delle vite trans è intimamente legata alla modalità con cui il movimento si è strutturato.Non meno importante è il tema della rappresentazione artistica e mediale. Quando le persone trans sono rappresentate nei fumetti, nei film, nei media visivi, spesso lo sono come “oggetto” di curiosità o tragedia, non come soggetti complessi e agenti della propria storia. Ad esempio, la moda lesbica e queer, come racconta un articolo di Vogue, ha storicamente subito cancellazioni; e analogamente l’identità trans viene spesso ridotta a stereotipo o accessorio. Questa modalità di visibilità “controllata” ha effetto sia sulle percezioni sociali sia sulle pratiche attiviste: se la visibilità diventa estetica e non politica, il rischio è che la presenza trans venga incorporata nella narrazione senza trasformare la struttura. Allo stesso tempo, ci sono segnali di speranza e rivolta. A San Francisco, la prima Trans March risale al 2004 e si proponeva proprio di “riprendere” lo spazio che la comunità trans sentiva di avere perso nel Pride ufficiale. A Londra nel 2025, la parata trans‑specifica ha raccolto decine di migliaia di persone e ha ribadito la dimensione politica autonoma delle rivendicazioni trans. Nel contesto italiano, associazioni come MIT Bologna, Gender X e il Consultorio Trans di Bologna continuano a operare quotidianamente perché la lotta trans non resti accessoria, ma centrale nell’agenda dei diritti.
Come allora possiamo procedere per costruire un movimento queer che non dimentichi le persone trans? Innanzitutto, abbandonare la logica del “tokenismo”: non basta dire «anche noi siamo inclusi» se non sono previste concrete politiche, risorse, leadership, visibilità significativa. Una rivoluzione dell’orgoglio significa riconoscere che l’“inclusione” non è un premio, ma un dovere. Significa dare spazio decisionale alle persone trans, mettere al centro della manifestazione le richieste specifiche (non solo bandiere, ma azioni), rivedere la memoria storica per includere le radici trans‑led. Significa anche rivendicare rappresentazioni mediali e culturali che siano autentiche, che riconoscano l’agenzia delle persone trans, non solo come margini decorativi.
In conclusione: il Pride e più in generale il movimento queer, deve ricordare che non è nato per essere una festa, ma un atto politico di resistenza. E se davvero vogliamo “celebrare orgoglio”, dobbiamo celebrare chi ha costruito le fondamenta e continua a portare il peso della lotta. Ignorare le persone trans significa non solo privarle di giustizia storica, ma indebolire la comunità intera. Perché una comunità che dimentica i suoi fondatori non ha radici forti.
